di Federico Borra e Giorgio Turconi
Se in un social clicchi su un banner di una pubblicità di scarpe per mesi provano a vendertene tante da far contenti venti millepiedi, se con un motore cerchi un hotel in Liguria ti tempestano di così tante offerte dalla Riviera di Ponente a quella di Levante che se le accettassi tutte dovresti essere un gatto e passarci le tue sette vite, e forse non basterebbero. E lo fanno con il tuo consenso che distrattamente concedi praticamente dappertutto quando spunti il flag di quella domanda grazie a cui accetti di cedere i tuoi dati per ricevere pubblicità consona alle tue aspettative. Ma la cosa peggiore è che su Facebook ti propongono i post sempre degli stessi amici, quelli a cui hai messo un like, e anche tu non riesci a far bucare al tuo pensiero la cerchia di quelli che di recente ti hanno dato un like!
Pur di venderci qualcosa continuano a riproporci solo ciò che abbiamo mostrato di gradire e ci chiudono in una cerchia autoreferenziale ristretta di amici con cui abbiamo affinità, almeno secondo gli algoritmi di analisi.
Insomma anziché essere strumenti di espansione e di comunicazione i social ci chiudono sempre di più dentro noi stessi, diventiamo come uno di quegli asini attaccati ad una macina che girano in tondo tutta la loro vita, senza prospettive. In una massa di miliardi di individui anonimi, apparentemente personalizzati one-to-one ma in realtà anestetizzati, personalizzati, omologati dall’algoritmo che sceglie per te, cosa conta più il singolo, a cosa serve il pensiero? Ti danno quello che ti piace, ma ti è tolta la capacità di cercare, di pensare, di conoscere, di espanderti, di soffrire ma di crescere. La società nei secoli è progredita per le diversità, per il confronto, per la ricerca, per la sperimentazione, per il non conosciuto da cercare. Forse dovremmo proprio vietarla la profilazione. Dio salvi l’agorà.